La serva di Dio Genoveffa De Troia

Ci sono creature che ricevono il doloroso dono dell’intendimento e contemplazione del mistero della Croce, alcune portano nel loro corpo i segni visibili del Crocifisso come le Stimmate o le piaghe della corona di spine o l’esacerbarsi dei dolori simili alla crocifissione, durante il periodo celebrativo della Passione, ecc.
Ma se a queste creature, di cui è piena la storia mistica della Chiesa, viene data la consolazione visiva di tali segni; vi sono altre invece che in assenza di tali doni, soffrono nel loro corpo il tormento e le sofferenze della nuda croce, popolare, quotidiano e finanche putrefacente.
A questa categoria di anime destinate alla Via Crucis, appartiene Genoveffa De Troia, nacque a Lucera (FG) il 21 dicembre 1887 da Pasquale De Troia e Vincenza Terlizzi e già nell’infanzia ebbe il segno profetico del suo spirituale destino, a quattro anni comparve sulla gamba destra una piaga infetta che non guarirà mai, accompagnandola per tutta la vita.
Ogni anno la mamma la portava al celebre santuario della Vergine Incoronata per implorare la guarigione e fu durante l’ultimo pellegrinaggio, che durante la recita delle sue preghiere, Genoveffa sentì una voce che le diceva: “non guarirai”, al che lei rispose prontamente: “Sia fatta la volontà di Dio”, intento che sarà la nota caratteristica di tutta quanta la sua spiritualità.
Visse nella povertà della famiglia, segnata dal lavoro incerto del padre; nel 1901 a dodici anni frequentò ma senza successo, la scuola delle Suore di Carità, per questo dovette imparare il mestiere di cucitrice, ebbe anche un’altra esperienza di un mese a servizio di una famiglia di Trani e poi di un’altra a Lucera. Nel 1913 seguendo l’occasionalità di un lavoro trovato dal padre, la famiglia si trasferì a Foggia, da cui non si allontanerà più, se non per sfuggire ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, quando si spostò a Troia nel 1943 per farvi ritorno nel 1945.
Nel fiore della giovinezza, la malattia che già covava da anni, si rivelò in tutta la sua drammaticità, costringendola a letto, da dove non si alzerà più. Si trattava della ‘lipoidosi o granulomatosi’ detta anche “Malattia di Hand-Schüller Christian”, progressiva e peggiorativa, caratterizzata da alterazione e deformazione delle ossa craniche, a volte aumento della testa, atrofia genitale, nel suo caso ella era ‘flagellata dalla testa ai piedi’, mentre il suo corpo si rimpiccioliva a poco a poco, vittima di un nanismo ipofisario, mentre lo stare sempre a letto le procurò piaghe da decubito putrescenti in varie parti del corpo; l’immagine che conosciamo di lei, la raffigura tutta coperta di bende.
Ma tutto questo era da lei accettato come volontà di Dio e al suo capezzale si alternavano persone di ogni ceto a chiedere consigli, preghiere, conforti; ormai la sua angusta stanzetta era diventata come una piccola cappella il cui altare era il lettino su cui Genoveffa si immolava per i peccati del mondo.
Diceva: “Il giorno sono a disposizione delle anime che mi manda Gesù. La notte, tutta per Gesù a pregare e soffrire con Gesù”. L’incontro con un frate cappuccino padre Angelico da Sarno, nel 1925, fu determinante per la vita spirituale della giovane sofferente, egli commissario del Terz’Ordine Francescano ne divenne guida sicura e fonte di pace; dopo vari spostamenti, dovuti all’incomprensione dei proprietari di casa, timorosi della malattia di Genoveffa, la sistemò in una piccola casetta in via Briglia a Foggia.
Anche in questo si deve vedere la volontà di Dio che opera dove vuole e come vuole, la strada era posta in un quartiere non proprio esemplare, case di povere prostitute si affacciavano sulla medesima strada e lei debolmente diceva a padre Angelico: “Padre dove mi avete mandata?”.
Ma la sua presenza diventa opera di ‘bonifica’ della zona, man mano aumenta il numero delle persone che si recano a visitarla, alcune famiglie le inviano ogni giorno il cibo della propria tavola, ma lei che non mangiava quasi niente, lo dirotta alle famiglie dei dintorni che soffrono la fame.
Nell’anno 1931, indossò l’abito di Terziaria Francescana, la sua celletta, come la chiamava, si trasformò in cenacolo di preghiera e in centrale di apostolato in aiuto della parrocchia, dell’Azione Cattolica, dei missionari. Benché praticamente analfabeta, dettava lettere che inviava dovunque, portatrici del messaggio della perfetta letizia, senza saperlo ella dalla sua cattedra di dolore, insegnava quella spiritualità operosa, che poco distante da Foggia, a S. Giovanni Rotondo il futuro santo cappuccino Padre Pio da Pietrelcina, negli stessi anni, proclamava in modo più visibile con le sue stimmate e le sue iniziative sociali.
Era anche il tempo dell’affermarsi delle ideologie razziali, con l’estetismo pagano del nazismo, che oltre il massacro degli ebrei, faceva morire con una iniezione, in pseudo ospedali tedeschi, i portatori di handicap, rei di offuscare con la loro presenza, la purezza della razza ariana, che Hitler cercò di esaltare con l’istituzione delle case dell’amore di Stato, in cui si combinavano unioni di prestanti giovani con avvenenti valchirie tedesche.
E invece qui nel profondo Sud d’Italia, una portatrice di grave handicap, diventa guida spirituale, aiuto effettivo nei bisogni, conforto nelle immancabili difficoltà della vita sia fisiche che morali. Certo le teorie folli di Hitler sappiamo come sono finite, in un bunker bombardato, mentre la luce scaturita dalle sofferenze di Genoveffa prosegue ad illuminare questo mondo in perenne pellegrinaggio verso la verità, anche attraverso la sua “Famiglia spirituale” che prosegue dopo di lei e in suo nome, nell’ambito dell’assistenza nelle carceri e nell’accoglienza di minori a rischio, la sua opera di carità, che espletava senza muoversi dal letto.
Nonostante che alla nascita, vista la sua gracilità, le avessero prognosticato 24 ore di vita, Genoveffa restò inchiodata alla sua croce ben 62 anni, morendo l’11 dicembre 1949; il suo corpo prima inumato nel cimitero di Foggia, fu poi traslato nel 1965 nella chiesa dell’Immacolata dei cappuccini.
Sono in corso i processi apostolici per la beatificazione, che si spera avvenga al più presto, così da poter indicare con maggiore efficacia a tutti, i frutti della sofferenza donata a Dio, senza disperazione, di cui Genoveffa De Troia è senz’altro un esempio fra i più eclatanti.

Antonio Borrelli

 

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